EH? HUH?! HAHAHA…una riflessione sull’immagine e il nostro bisogno di nominare tutto

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Facciamo un esperimento.
Prova a cercare la parola “categopatìa” su Google o su un qualsiasi altro motore di ricerca. Anzi no. Fermati.  L’ho fatto io per te. Trovi il risultato della ricerca nella gif in basso.

Nonostante i suggerimenti di Google e la ricerca concitata di una risposta che diventa frenetica quanto più si è rapidi nel digitare c-a-t-e-g-o-p-a-t-ì-a, si finisce per “atterrare” sulla schermata “Impossibile trovare risultati contenenti tutti i termini di ricerca, forse cercavi il termine categoria”?

Il termine, infatti, non esiste, o meglio non esisteva fino a quando i partecipanti al workshop Exposed Mindchangers with The Cool Couple, hanno elaborato questo neologismo.

I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo

Ma facciamo un passo indietro.
Quest’anno per l’evento regionale di Mindchangers in Piemonte abbiamo collaborato con Exposed Foto Festival, il nuovo festival internazionale di fotografia di Torino. New Landscapes, questo il titolo scelto per la prima edizione del festival, ha voluto proporre tramite un denso programma di mostre e talk, una riflessione sull’evoluzione del medium fotografico e sulle sfide e innovazioni del mondo dell’immagine.

Dal 23 al 25 maggio un gruppo di 20 giovani selezionali tramite una chiamata pubblica si è cimentato in un workshop sulla fotografia tenuto dal duo artistico The Cool Couple.

Ma che connessione c’è tra un workshop di fotografia e l’elaborazione del neologismo “categopatìa”, e degli altri neologismi creati dai partecipanti al workshop? Una perplessità legittima, ripresa e proposta al pubblico presente all’evento finale del workshop, da Giangavino Pazzola, Executive Director di Exposed.

 “Quando uno pensa un corso o un workshop di fotografia, immagina un gruppo di persone che esce e va in giro a fare fotografie”

La proposta del duo artistico The Cool Couple di guidare i giovani mindchangers in un percorso di riflessione sull’immagine contemporanea, confluito nella produzione di una fanzine, ha avuto origine da due presupposti fondamentali.

L’esperienza che facciamo del mondo e della realtà che ci circonda è eminentemente visiva. L’atto di osservare un fatto o “visualizzare” un’idea nella nostra mente è un qualcosa che esperiamo individualmente e che solo in un secondo momento viene socializzato, condiviso e quindi riconosciuto da altre persone. Ma affinché vi sia questo riconoscimento è necessario che l’immagine o l’idea sia fissata su un mèdium. Se riprendiamo quindi la definizione di mèdium[1] “come ogni cosa che possa veicolare un «messaggio»” allora risulta evidente come la proposizione di un neologismo sia una delle molteplici possibilità a disposizione per vedere riconosciuta un’esperienza individuale in un’esperienza collettiva.

Il secondo presupposto che ha stimolato i lavori del workshop richiama il celebre aforisma di Ludwig Wittgenstein “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.

Secondo il filosofo austriaco, il linguaggio, inteso come sistema di segni e regole per la comunicazione umana, plasma la nostra realtà mentale. Attraverso le parole diamo forma a concetti, idee ed esperienze, costruendo valori e credenze che guidano le nostre azioni. Pertanto, la capacità di esprimersi con efficacia, utilizzando un linguaggio ricco e sfumato, è fondamentale per forgiare la nostra realtà mentale, influenzando quindi la nostra percezione del mondo e l’interazione con esso.

In che modo il linguaggio influenza quindi la capacità di organizzazioni non profit, ONG e giovani attivist* di rivendicare il riconoscimento nuovi diritti e nuove istanze direttamente ascrivibili al campo della giustizia sociale?

Per capire meglio questo passaggio può tornare utile il dibattito tra la socio linguista Vera Gheno e il critico letterario e scrittore Walter Siti. In occasione dell’ultima edizione di Biennale Democrazia, iniziativa promossa dalla Città di Torino con l’obiettivo di diffondere la cultura della democrazia, i due studiosi si sono confrontati sul tema della schwa in un incontro da titolo “Parolə, Parolə, Parolə”. Il tema ha infiammato negli ultimi anni il dibattito pubblico italiano contrapponendo coloro che propongono l’uso della “e” rovesciata  per svecchiare una lingua come l’italiano che esagera nell’utilizzo del maschile sovraesteso (quindi poco inclusiva), e chi invece sostiene che la proposta sia di difficile applicazione, uso e pronuncia dal punto di vista linguistico, oltre ad essere ostili ad un riconoscimento delle rivendicazioni di persone che si sentono poco rappresentate da una lingua che contempla solo sue identità di genere: quella maschile e quella femminile.

Nella sala gremita del Teatro Carignano di Torino, la socio-linguista di origini ungheresi, una delle maggiori sostenitrici dell’uso della schwa, sostiene che “è proprio nel momento in cui nomino una cosa che diventa visibile […] il senso della schwa è proprio rendere visibile l’esistenza dell’altro”. Dal canto suo Walter Siti ribatte affermando che partendo dal presupposto di includere fino all’ultima persona attraverso il linguaggio si rischia paradossalmente di rendere tutti uguali in senso negativo”.  Il problema, continua Siti, “è rinchiudersi in una bolla in cui ci capiamo solo tra di noi, ma gli altri non ci capiscono”.

Ricordi il neologismo menzionato precedentemente? Secondo il gruppo di giovani che lo ha coniato, la categopatìa ben rappresenterebbe il paradosso originato dalle posizioni di Gheno e Siti. Gruppo che ha fornito anche un esempio concreto della parola per renderne intelligibile il significato: “La sua categopatìa lo portava a sentirsi intrappolato nelle etichette che cercava di imporre su se stesso e sugli altri”. 

Sei neologismi per correggere i limiti del nostro mondo 

È proprio da questa premessa concettuale e teorica che i giovani e le giovani mindchangers hanno preso spunto, per riflettere e successivamente proporre dei neologismi capaci di rendere visibili delle idee nuove che spaziano dal riconoscimento di nuovi diritti a stati d’animo e sensazioni innescati dalla contemporaneità. Dopo la fase di inquadramento teorico fatta dai TCC e il brainstorming del primo e secondo giorno di lavori, i partecipanti hanno quindi dato concretezza alle riflessioni condivise dando vita a sei nuovi neologismi. Tra i gruppi c’è stato chi si è dedicato a visualizzare e fissare attraverso una parola stati d’animo e sensazioni indotte dal nostro vivere in una società frenetica e iperconnessa.

Per descrivere il ciclo compulsivo di accumulo di oggetti materiali, immateriali (esperienza, persone,…) e digitali, seguito da un repentino processo di svuotamento, uno dei gruppi ha coniato il termine Bulimokenosis. “Questa condizione deriva da una percezione diffusa tra le giovani generazioni di una disarmante scarsità di tempo, che porta alla sensazione di impossibilità di esperire tutto ciò che la vita offre e che si desidera. Le conseguenze sono un’archiviazione e un accumulo spasmodici, causati dal terrore della perdita, che conducono però a un sovraccarico tale da richiedere uno “svuotamento” completo e violento in una sola volta.”

Il lavoro di alcuni gruppi si è invece misurato con fatti di cronaca presente e con le tematiche, centrali in Mindchangers, come i cambiamenti climatici e le migrazioni.

Guardando alla vicenda storica della Palestina e al diritto del suo popolo di vivere sulla terra dove era presente ben prima della costituzione dello stato di Israele, è stato coniato il neologismo inglese rootsdom (sostantivo inglese composto roots + freedom). Il termine sta a indicare il “sentimento di chi avverte o esprime il bisogno psico-fisico di proteggere le radici del popolo di appartenenza dalla cancellazione, restando o tornando nella propria casa”.

Riflettendo sul tema delle migrazioni indotte dai cambiamenti climatici il gruppo omonimo ha dato vita alla parola saudankh, neologismo scelto per indicare il “sentimento di profonda nostalgia provato da chi è costretto ad abbandonare la propria terra natia a causa della crisi ambientale, alimentato dalla speranza di potervi fare ritorno”.

Le parole sono state accompagnate da una serie di immagini e grafiche create ad hoc con l’obiettivo di dare maggiore consistenza al documento attraverso un apparato visuale capace di integrarsi e di supportare quello testuale.

Conclusione

Che sia per le scarse capacità SEO di chi scrive, o perché i web crawlers di Google ci metteranno un po’ di tempo a indicizzare questo articolo, al momento i neologismi non hanno la giusta diffusione sul web. È però indubbio che grazie al lavoro fatto dai venti Mindchangers insieme ai The Cool Couple, siamo dotati di nuove parole con cui possiamo meglio affrontare le difficili sfide che ci pone la contemporaneità, parole nuove che ci permetteranno di abbattere, seppur in parte, alcuni dei limiti del nostro mondo.

Sfoglia la fanzine in basso
thecoolcouple-exposed_cop_mindchangers

[1] mèdium2 s. m. [lo stesso etimo della voce prec., sull’esempio ingl.]. – Termine con cui viene talora indicato ogni singolo mezzo di comunicazione e di informazione, ossia ogni veicolo di «messaggio», facente parte di quelli che complessivamente sono chiamati, con espressione ingl., media e più comunem. mass media (v. le due voci).  La parola viene anche sentita e pronunciata come ingl., ‹mìidiëm›, e in tal caso può avere oltre a media, ora citato, un plur. mediums ‹mìidiëm∫›. categopatìa neologismo ricerca google

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